Ero a Padova nella basilica di sant’Antonio e osservavo, con atteggiamento – lo confesso – un po’ scettico, una donna che pregava quasi abbracciata all’urna del santo. Poco dopo mi trovavo a Gerusalemme e andai a visitare la tomba di Rachele, a quel tempo di libero accesso, mentre ora è presidiata dal check point da oltrepassare per raggiungere Betlemme. Appena entrato, il ricordo della scena vista a Padova mi assalì con grande emozione: una donna ebrea stava abbracciata, nella identica postura, alla tomba della grande matriarca. Mi venne in mente, nel vecchio latino delle antifone gregoriane della festa dei Santi Innocenti, il passo di Geremia:
“Rachel plorans filias suos ……quia non sunt”; pensai subito si trattasse della madre di figli soldati, forse morti, nella guerra senza fine fra ebrei e palestinesi. Sotto le dottrine che divergono, vive la medesima dolente umanità che porta a Dio, per l’intercessione dei suoi santi, i propri dolori e speranze. Non molto diversa fu l’esperienza della permanenza di alcuni mesi in Cambogia, dove il buddismo si intreccia tranquillamente con il suo substrato animista. La pagoda ha al suo centro il vihara dedicato a Buddha, ma tutto all’intorno, dentro il recinto, abbondano i tempietti dedicati a diversi spiriti. Al Vat Phnom, la pagoda più importante di Phnom Penh, il vihara è in alto sulla sommità della collina. Nel vasto recinto all’intorno i tempietti: uno particolarmente ampio e molto frequentato. Vi trascorsi una mattinata a osservare cosa vi accadesse. Mi attirava contemplare i volti dei devoti che venivano a deporre su una mensa, simile a un altare, le loro offerte, dal mazzo di fiori di loto, al cesto di frutta, al pollo già ben cotto. Volti e mani giunte esprimevano senza parole l’appassionata attesa di una grazia che veniva implorata. Non mancavano volti rigati di lacrime: quasi due milioni di morti, un terzo della popolazione, era stata la tragica somma della rivoluzione dei Khmer rossi, che aveva insanguinato la Cambogia pochi anni prima.